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Post-Hardcore:Consigli per gli Acquisti

Ultimo Aggiornamento: 27/10/2007 17:02
16/08/2007 14:29
 
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Neurosis

The Eye of Every Storm




Potremo chiamarli i pionieri dello Sludge metal, punto di riferimento per tutti coloro che apprezzano il genere o più generalmente la sperimentazione e le melodie introspettive. Sono i Neurosis di Steve von Till, una creatura bizzarra, uno di quei progetti che rifuggono con orrore ogni schema classificatorio. Oscurità totale e claustrofobica generata da un calderone infernale che unisce atmosfere lugubri e decadenti, quasi dark, industrial e noise, per i tanti momenti dissonanti, e infine doom, per la pesante, inesorabile lentezza con cui queste note inevitabilmente incedono, quasi volessero dare inizio al giorno del giudizio.
Questo album si distingue dal precedente capolavoro A Sun that never Sets: meno cupo e apocalittico, trame più organiche, suoni sempre impressionanti e curati al minimo dettaglio che si intrecciano al binomio vocale Kelly-Von Till. Disco da scoprire, un'esperienza che può regalare sorprese e sbigottimenti anche dopo mesi di ascolto, una miscela comunque né leggera, né immediata: un connubio ideale di parole e musica a cui avvicinarsi pian piano, senza fretta e nè timore; l'ideale colonna sonora per una sera adibita al contatto interiore, con ciò che si ha dentro e che nessuno si è mai preso la briga di spiegarci. Un ulteriore passo sul sentiero tortuoso che li porterà all' intuizione definitiva di un rock come percezione extrasensoriale, di un suono come esperienza materialmente tangibile, di una definitiva sbirciatina, in sostanza, sul futuro di questo genere. E tanto vale avventurarsi nell'ascolto del nuovo criptico album, Given to the Rising
Procuratevi questo disco, liberatevi momentaneamente dalle preoccupazioni e convenzioni che vi attanagliano l'esistenza e lasciatevi andare, almeno per un momento: sarà la vostra indole a decidere se i Neurosis sono o no il gruppo che fa per voi.


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Raging Speedhorn

How the great have Fallen




Raging Speedhorn, un nome dalla facile aggettivazione: incazzati, grezzi, trascinanti. Senza nessuno speciale passo avanti dal precedente album, i ragazzi di Corby ci ripropongono il loro letale mix di metal, sludge e hardcore che, in mezzo ai duecento dischi “avanti” e “intelligenti” che escono nell'ambito estremo al giorno d’oggi, fa proprio piacere spararsi.
Perché? Perchè i Raging Speedhorn non si sono fortunatamente ancora scordati il significato della parola “groove”, e ripescandolo dai migliori anni 70 ce lo ripropongono in un ottica estrema, tirata, urlata, distorta al limite e annegata in un mare di feedback, accompagnato da caldi riffoni grassi e fottutamente southern.
Allora dov’è il problema di questo disco? Sostanzialmente nella poca varietà, perché dopo Dead Man Walking cominciamo a incespicare su episodi un po' meno riusciti, tra i quali si distinguono però l'immensa Slay the Coward e Don’t Let the Bastards Grind You Down, un'asfissiante cavalcata sludgecore. Un po’ troppi quindi i pezzi con poco tiro (quasi sempre i più lenti) per parlare di capolavoro, assolutamente devastanti invece quelli con un tocco hardcore/metal in più.
Un disco, riassumendo, gustoso, marcio e incazzato con sincerità, senza troppi fronzoli e con la giusta carica, che però presenta tre o quattro pezzi decisamente trascurabili. Alla fine comunque questi ragazzi si meritano il pieno supporto, perché la musica estrema con ancora qualcosa da dire passa anche tra le ringhianti chitarre di questo disco, e non è poco. For fanatics only.


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Vanessa VanBasten

La stanza di Swedenborg




Già all'uscita del primo EP molti amanti del genere gridarono al miracolo. Se qualcuno diffidava ancora nel vedere questa band come una delle migliori emergenti in campo sperimentale italiano, ascoltando La Stanza di Swedenborg vedrà sfumare ogni dubbio.
Il motivo è presto detto. Il disco è straordinariamente bello, ma non è tanto questo il punto: piuttosto si ha, durante l’ascolto, la forte sensazione dell’esistenza di uno stile Vanessa Van Basten a cui far riferimento, come si è soliti fare per compagini più blasonate. Il post rock a tinte heavy dell’EP è stato qui portato ancor più oltre, è stato intriso di un senso onirico e di una straordinaria solennità che lo rende appetibile anche ai non cultori del genere.
Post rock, una definizione che potrebbe appunto fuorviare, che senz’altro riguarda lo stile di una band in cui si fa evidente l’abilità di arricchire il tutto con una personalità dai tratti inconfondibili, inquietudini e oscurità, incontri cinematografici a sfondo orrorifico, dilatazioni ambientali di grande effetto ed atmosfera.
Spettrale la title-track con voce fuori campo, impatto drammatico donato dagli accordi del muro di chitarre distorte per poi placarsi e rendere l'atmosfera più intima con Giornada de Oro e passare all'inclinazione ambient di Il Faro, all'evocativa Floaters e agli algoritmi elettronici di Vanja. Una nuova realtà della musica italiana.


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Converge

Jane Doe




Jane Doe è, senza giri di parole, un disco immenso, denso di strati e visioni difficilmente spiegabili a parole. La reiterazione di alcuni concetti lo rende quasi un album ipnotico, il continuo inseguirsi degli strumenti ha, invece, tendenze claustrofobiche. Potete capire da soli che è un disco che cambia in base al vostro umore: può farvi impazzire (positivamente) come soffocarvi (negativamente) nel giro di pochi minuti, il trionfo dell'estremizzazione ed il parto di menti illuminate che si ritrovano a mescolare la materia hardcore con il noise, lo stoner (Hell To Pay), il doom (Phoenix In Flight), il grind e chissà cos'altro di nascosto fra le pieghe di un suono denso e paragonabile solo ad una colata lavica.
Un album spaventoso e unico nel suo genere e, per sua natura, irripetibile.
Proveniente da Salem, Massachusetts, i Converge si sono formati nel 1990. Il loro genere è una miscela di metal estremo e hardcore, e la loro musica ha contribuito alla nascita ed allo sviluppo del genere metalcore.


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Eyehategod

Take As Need For Pain




Gli Eyehategod, suonano dannatamente Lenti e Vintage. Come tradizione impone. Fondono Hardcore (perennemente e ostinatamente Old School) vocals sofferenti e schizofreniche e bordate inesorabilmente Lente e opprimenti. A volte il ritmo si alza, come a voler offrire all'ascoltatore una piccola dimostrazione di quanto si può ottenere suonando pesanti, ma non per questo senza dimenticare la forza deflagrante che può essere contenuta in un pur breve scossone sonico.
Sister Fucker Part 1 & 2 sono qui a dimostrarcerlo. Punk (prendete questa definizione con le molle) Cattivo e metalizzato, cascate di riff presi in prestito da Toni Iommi. Ma resi molto più duri, come la corrente Hardcore e Doom di ultima generazione impone. I brani si sviluppano per lo più con numerosi cambi di tempo, riff cadenzati da panzer si susseguono per far posto poi a digressioni di matrice acid-noise atte a raffigurare la rabbia e la frustrazione. Eppure questo è uno di quegli impianti sonori che da più tempo (leggasi primo album In The Name Of Suffering) propone questo suono denso e pastoso senza cali o cedimenti, senza cambi improvvisi di corrente musicale, giunti qui per testimoniare solo di essere una delle band di Sludge-Doom più credibili e indiscusse. Ascoltare per credere.


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A Silver Mt.Zion

Horses in the sky




Basterebbe questo nome per far aprire davanti a noi un universo a parte. La formazione canadese si è ritagliata con gli anni una fetta importantissima del panorama post-rock, grazie alla sua eccentricità e particolarità. Il gruppo si forma nel 1999 come un side project dei Godspeed You! Black Emperor, grazie al chitarrista Efrim Menuck, al bassista Thierry Amar e alla violinista Sophie Trudeau. Il disco in questione si presenta come un mezzo capolavoro nel genere, sostituendo alle intricate trame chitarristiche tipiche del post-rock i vocalizzi di Efrim.
L’incipit dell’opera è sconvolgente. God Bless Our Dead Marines si apre con alcuni vocalizzi particolarmente toccanti e istrionici, che vengono supportati da violini, tastiere e percussioni, accavallandosi e contorcendosi in una danza mistica e psichedelica. Poi le sfumature folk del disco prendono prepotentemente piede: Mountains Made Of Steam parte con un arpeggio molto suggestivo al quale si complementa l’immancabile voce di Efrim, accompagnata da cori.
Sussurrata, giunge alle nostre orecchie la title-track, interamente occupata da chitarra classica e voce, occupando sei minuti trasognati e toccanti, in pieno stile A Silver Mt.Zion.
Teddy Roosevelt’s Guns è sicuramente la traccia più atipica e sperimentale del disco. La parte vocale può apparire scontata, infatti ripete la frase “Oh Canada, oh Canada, I've never been your son” per quasi tutta la durata del pezzo, ma la vera innovazione è negli strumenti, che creano un atmosfera surreale e psichedelica.
Ring Them Bells (Freedom Has Come and Gone) chiude il disco in maniera esemplare, ritornando ai canoni (se così si possono chiamare) del post-rock, aggiungendoci una maestosità e un intensità difficilmente reperibili oggigiorno. Gli strumenti danno il meglio di se, regalandoci tredici minuti sentiti e capaci di toccare le corde dell’anima.


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Botch

We are the Romans




Sono gli USA la nuova Roma indicata dai Botch, ed è una Roma che cade, e con disastrosa inevitabilità cede al peso degli anni, delle piccole rivoluzioni quotidiane e della perenne innovazione di una civiltà caotica e frattale come quella umana.
E quindi è mastodontico, roboante eppure anche lui in un certo senso caotico e frattale, lucido e schematico, il sound dei Botch: un sound che si inquadra in un metalcore evoluto, ormai libero dei pregiudizi che lo hanno sempre impantanato, già pronto ad evolversi in quello che oggi viene spesso chiamato mathcore.
Riff contorti (e assoli impossibili si direbbero suonati da 4 mani), batteria che scandisce controtempi su poliritmi, influssi jazzy e dei King Crimson; eppure lo schema delle cose fluisce così bene, proprio come se fosse un brano di puro hardcore, semplice e lineare, energico. Pestano duro, ma sanno quand'è il momento di stare un po' calmi e far riprendere il fiato, eppure è solo una presa per il culo: uno schema ciclico, frattale intrappola l'ascoltatore in momenti catartici, furiosi, pura annichilazione della ragione, quadro di profonda anarchia che ritrae il crollo immane dell'Impero.
E, nonostante tutto, lo scheletro, la colonna portante di quest'opera sonora è permeata di lucidità. Di una fondata, magari schizofrenica, malata, però pur sempre di lucidità si parla, di razionalità, di coerenza compositiva: già al primo ascolto, avevo quell'indefinibile sensazione da "questi hanno messo le note giuste al posto giusto". Assalto dopo assalto, catarsi dopo catarsi, rivoluzione dopo rivoluzione, una marcia tonante introduce l'ultimo pezzo, che forse lo si potrebbe criticare per eccesso di epicità (il coro a cappella che scandisce il titolo dell'album, ad esempio). Tuttavia l'immagine apocalittica, ridondante e disastrosa, è ritratta con straordinaria efficacia.
Chiude il disco una hidden track, sette minuti di elettronica. Sì, proprio di elettronica. Condita da distorsioni quanto vi pare, ma è pur sempre elettronica.. non esattamente il tipo di cosa che ci aspettiamo in conclusione di un album così. Eppure l'esperimento - e la sorpresa - funziona, si incastra nel contesto affollato del brano.
Da Rocklab


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Slint

Spiderland




Nel 1991, mentre Nevermind segnava una svolta commerciale nella storia del rock, la Touch & Go rilasciava un album che oggi in molti fanno coincidere con la nascita del post-rock. Gli Slint si formarono nel 1987 registrando nel 1989 il loro disco d’esordio Tweez, prodotto nientemeno che da Steve Albini e seguito da Spiderland due anni dopo. La band si sciolse l’anno successivo, ma i suoi componenti sono rimasti attivi nella scena indipendente in altri gruppi e progetti.
Il retro copertina reca l’insolito messaggio che il disco andrebbe ascoltato in vinile. Fin dall’inizio si capisce che il suggerimento non è poi così bizzarro: in Spiderland le 6 tracce si fondono tra loro per creare un’unica atmosfera, in un voluto oscillare tra attimi di quiete e rumori stridenti, con sfumature non sempre percepibili su cd. Riff acustici e un basso ipnotico creano basi ora delicate, ora incalzanti, i suoni diventano sempre più tesi e incombenti, esplodono dopo un lungo pathos e si spengono poco a poco, come in Don, Aman e Good Morning, Captain. La voce è per lo più un sussurro parlato, ma nei momenti di maggior tensione diventa un lamento straziante. Nosferatu Man è il brano più energico dell’album, perfettamente bilanciato dai ritmi pacati della strumentale For Dinner.
Che la definizione di “pietra miliare” spesso associata a quest’album sia esagerata o meno, Spiderland rimane un ottimo disco che ha spianato la strada al post-rock ed è in grado di soddisfare i gusti degli ascoltatori più esigenti.


[Modificato da Benny404 17/08/2007 01:09]
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