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Post-Hardcore:Consigli per gli Acquisti

Ultimo Aggiornamento: 27/10/2007 17:02
15/08/2007 21:52
 
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Post Hardcore\Post Metal Zone
Elenco di album e artisti fondamentali-Consigli per gli Acquisti

Minsk

Out Of A Center Which Is Neither Dead or Alive




Un album che sarebbe facile da definire con una sola parola... pazzesco!
Si presenta così sulla scena musicale questo gruppo di Chicago: un cammino oscuro diviso in 6 lunghi brani pesanti e ossessivi, a cavallo tra Doom Metal, Ambient e Noise.
Un lavoro estremamente monolitico, che stordisce ad ogni ascolto, contenente anche passaggi estremamente struggenti (da brividi la chiusura con Wisp of Tow).
A chi si domanda che emozioni possa donare lo Sludge Metal consiglio di partire da questa band, magari non tra le più famose, ma sicuramente tra le più originali e non solo nel genere...
Nel 2006 si ripetono con The Ritual Fires of Abandonment, degno erede del disco d'esordio.


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Isis

Panopticon




Maestri del Post-core, la band californiana, famosa anche per aver spesso supportato in tour i più famosi Tool e le collaborazioni con Justin Chancellor, raggiunge l'apice di un'ottima carriera con questo album, che forse necessita di più ascolti per essere apprezzato appieno.
Lavoro impegnativo anche per tematiche (il "Panopticon" è il carcere ideale progettato per favorire recupero e reinserimento dei detenuti), si divide in sette tracce ben costruite, che alternano passaggi incalzanti alle inconfondibili coinvolgenti e riflessive melodie tipiche della band.
Album da intenditori: chi ama la musica, indipendentemente da etichette e pregiudizi, DEVE averlo.
Gli Isis sono una band fondamentale nell'evoluzione del genere, in grado di sfornare piccoli capolavori fin dagli inizi con Celestial, all'ultimo lavoro In the Absence of the Truth, passando per l'indimenticabile Oceanic.


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Cult Of Luna

Somewhere Along the Highway




Questa band svedese ha affrontato senza traumi il passaggio da sonorità più tipicamente hardcore al post-core. Lo dimostra l'ultima fatica, Somewhere Along the Highway, che, oltre a colpire nell'animo dell'ascoltatore, fa ben sperare per il futuro del sestetto.
Pezzi lunghi e articolati, di grande forza figurativa sia nelle parole, sia nelle melodie uniche che questo gruppo sa sviluppare. Immaginatevi di trovarvi... da qualche parte sulla strada maestra, appunto.
Un senso di incertezza, scoforto... forse anche paura, inserito in un'immensità che la mente umana non riesce a realizzare e governare: è ciò che contengono canzoni come Back to Chapel Town, Dim, Dark City Dead Man.
I Cult of Luna si sono evoluti dalle tematiche sociali più violente di Cult of Luna e The Beyond a quelle più incentrate sulla solitudine e l'animo umano di Salvation. E potrebbe arrivare presto il quinto capitolo...


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Mastodon

Leviathan




Potenza. Tecnica. Melodie atmosferiche... Sono probabilmente il gruppo più famoso del panorama post-hardcore e tra i più innovativi e tecnici del metal odierno. I Mastodon sono riusciti ad unire Sludgecore, Thrash metal e Prog e ottenere un sound semplicemente unico e di grande potenza.
Leviathan riassume tutto questo: violento e folle fin dalla prima traccia, Blood And Thunder, oscuro e trascinante con la fantastica Seabeast, potente e devastante con iron Tusk e Megalodon, tecnica e velocità in Aqua dementia, fino ad arrivare all'eccezionale e struggente Hearts Alive, che riunisce tutte le caratteristiche dell'album.
Il bassista\frontman Troy Sanders, i chitarristi Brent Hinds e Bill Kelliher , il batterista (non umano) Brann Dailor sono semplicemente dei mostri nel proprio campo e lo dimostrano dall'inizio della carriera.
Lifesblood (EP), Remission e Blood Mountain completano la sempre ottima discografia della band, almeno per il momento.


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Middian

Age Eternal




Scioltisi gli Yob dopo dieci anni di brillante carriera e quattro dischi davvero uno migliore dell’altro, la loro eredità non poteva di certo andare persa. Proprio da qui nasce l’idea di Mike Scheidt –membro fondatore dei suddetti- di mettere in piedi questi Middian. Questa nuova incarnazione come si può intuire si propone con un pesante stoner doom dall’andamento lisergico e marziano, quasi trascinato a volte, il tutto ovviamente appoggiato su suoni di chitarra tremendamente ribassati e abrasivi, ma che non mancherà di alternarsi con frangenti molto più sludge-oriented ("The Celebrant"), oltre ovviamente alle immancabili influenze psichedeliche. Un viaggio per la mente di quasi un’ora (per un totale di cinque pezzi) durante il quale ci imbatteremo in paesaggi sognanti e sospesi, in forte contrasto con altri decisamente più caotici e nervosi, nonché in lunghe escursioni strumentali esattamente come da tradizione.
La lunghezza delle tracce (siamo sui dieci minuti l’una in media) non si sentirà affatto, merito principalmente delle ottime composizioni dei nostri, che prendendoci a braccetto sin dall’inizio non ci faranno traballare neanche un istante.
Age Eternal si è indubbiamente rivelato come un ottimo disco del settore, nonché il miglior parto dell’era post-Yob (forse più vigoroso e irrequieto), che contiene una manciata di pezzi davvero di alto valore e che chi è avvezzo a questo tipo di sonorità sicuramente non farà alcuna fatica ad apprezzare.


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ReD Sparowes

Every Red Heart Shines Toward The Red Sun




Cina, anni Cinquanta. Il colosso asiatico é ancora sotto la guida di Mao Tse Tung che decreta lo sterminio della popolazione dei passeri ad opera dei contadini per incrementare la produzione agricola. Compiuto ció che era stato richiesto dall´Alto Potere i raccolti dei contadini vengono distrutti dalle locuste, le principali prede dei passeri, causando una delle peggiori carestie nella storia mondiale con circa 40 milioni di Cinesi che morirono di fame.
Stati Uniti, 2006. I Red Sparowes decidono di creare un album concettuale avente come tema proprio questo avvenimento storico. Una scelta che avrebbe potuto comportare una serie di rischi, tra i quali quello non remoto di essere bollati come musicisti pretenziosi ed arroganti. È bene sgombrare immediatamente il campo da equivoci ed affermare che la seconda opera dei quattro musicisti californiani è un capolavoro di valore assoluto, uno di quegli album che non vengono sviliti ma valorizzati enormemente da ripetuti ascolti.
La band esibisce tutte le potenzialità del suo spettro musicale: composizioni soffici come la brezza mattutina alternate a cavalcate epiche di una bellezza devastante in cui affiora in superficie il background metallico dei componenti del gruppo (membri di band come Isis, Neurosis e Halifax Pier). La traccia numero cinque (mi rifiuto di riportare il titolo per esteso) è un concentrato di pathos, mistero e trepidazione, ma tutti gli otto brani costituenti l’album meriterebbero una menzione particolare proprio perché questa raccolta di emozioni non ha un vero punto debole, non un momento di pausa riflessiva, mantenendo l’attenzione altissima lungo tutta la sua durata.


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Yakuza

Samsara




Il variegato contesto Post-Hardcore non stempera comunque l'atipicità di una band come gli Yakuza, di Chicago, arrivata ormai al suo terzo album pressoché sconosciuta ai più nonostante l'interesse mostrato dalle principali webzine del settore, ma i primi quattro secondi dell'iniziale Cancer Of Industry dovrebbero far drizzare le orecchie anche ai più malfidenti.
Un ibrido indemoniato di jazz-core e math fra Dazzling Killmen, Craw e Zu si scontra con riff monolitici di chitarra, uno scream fondo e gutturale e fraseggi di sax atmosferici e orientaleggianti. Sulla carta, è la classica trovata che può rivelarsi una genialata come il più mediocre dei mischiotti, ma i rimanenti tre minuti della canzone sono più che sufficienti a escludere la seconda ipotesi e a mettere nero su bianco che gli Yakuza hanno idee e personalità da vendere. Plecostomus rispolvera i Black Sabbath e li mette di fronte ai Dillinger Escape Plan, con l'ombra dei King Crimson a stagliarsi sopra il magma rovente di sax e chitarra stoner. Il giochino dei nomi potrebbe andare avanti ancora per molto, perché la musica degli Yakuza sembra affondare le radici un po' dappertutto in trent'anni e passa di flirt tra jazz, progressive e rock duro. Monkeytail ondeggia tra atmosfere ipnotiche e impeto metalcore e si rivela uno degli episodi migliori del disco, mentre Dishonor esplora l'aspetto più mitragliante della proposta, con il frenetico botta-e-risposta delle due voci che cede il passo a un crescendo strumentale in perfetto stile Neurosis, col post\rock ad un passo.
Con questo album non solo gli Yakuza si confermano una band di grande classe, originalità e fantasia, ma dimostrano che la fervidissima scena che orbita attorno al metal, pur senza esserlo del tutto, non teme confronti ed è in grado di sfornare ottimi lavori, anche al di là degli ormai celebrati Dillinger Escape Plan, Converge, Botch e Coalesce. Il futuro del rock duro (e probabilmente non solo) si direbbe proprio passare da queste parti.


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Pelican

Australasia




In un’epoca in cui siamo abituati a sentire voci lamentose e nostalgiche c’è qualcuno che ancora taglia di netto la testa al toro. Ebbene sì cari miei, i Pelican la voce non la usano proprio, ma lasciano cantare gli attrezzi del mestiere, benissimo fra l’altro.
Australasia contiene sei canzoni. Si potrebbe dire che il perfetto riassunto dell'album risieda nella quarta traccia, GW, in quei tre minuti di riff pulito che prima trasfigura in una distorsione che urla "stoner stoner" a più non posso, per poi ricevere un incantesimo psichedelico nella parte finale. Ma sarebbe solo un improprio schematismo. Questo è un album che non si può ingabbiare.
Infatti all'interno di Australasia coesistono numerose entità: si va dal post-rock influenzato dallo stoner e dal postcore di NightendDay al "quasi-metal" di Drought in cui ritmiche massicce e sonorità molto in-your-face portano alla mente gli Opeth del fu Blackwater Park. In Untitled si respirano persino un po’ di Mogwai. Spettacolare la title track, portatrice di un paio di riff indimenticabili, sia quando viaggia ad alto regime sia quando rallenta per virare verso soluzioni atmosferiche e rilassate.
Siamo di fronte a stregoni del riff-metal, a una confidenza strumentale che può avere solo paragoni eccelsi come gli Isis nel riuscire a creare panorami stoner di estrema immaginazione sonora.

[Modificato da Benny404 17/08/2007 01:11]
16/08/2007 14:29
 
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Neurosis

The Eye of Every Storm




Potremo chiamarli i pionieri dello Sludge metal, punto di riferimento per tutti coloro che apprezzano il genere o più generalmente la sperimentazione e le melodie introspettive. Sono i Neurosis di Steve von Till, una creatura bizzarra, uno di quei progetti che rifuggono con orrore ogni schema classificatorio. Oscurità totale e claustrofobica generata da un calderone infernale che unisce atmosfere lugubri e decadenti, quasi dark, industrial e noise, per i tanti momenti dissonanti, e infine doom, per la pesante, inesorabile lentezza con cui queste note inevitabilmente incedono, quasi volessero dare inizio al giorno del giudizio.
Questo album si distingue dal precedente capolavoro A Sun that never Sets: meno cupo e apocalittico, trame più organiche, suoni sempre impressionanti e curati al minimo dettaglio che si intrecciano al binomio vocale Kelly-Von Till. Disco da scoprire, un'esperienza che può regalare sorprese e sbigottimenti anche dopo mesi di ascolto, una miscela comunque né leggera, né immediata: un connubio ideale di parole e musica a cui avvicinarsi pian piano, senza fretta e nè timore; l'ideale colonna sonora per una sera adibita al contatto interiore, con ciò che si ha dentro e che nessuno si è mai preso la briga di spiegarci. Un ulteriore passo sul sentiero tortuoso che li porterà all' intuizione definitiva di un rock come percezione extrasensoriale, di un suono come esperienza materialmente tangibile, di una definitiva sbirciatina, in sostanza, sul futuro di questo genere. E tanto vale avventurarsi nell'ascolto del nuovo criptico album, Given to the Rising
Procuratevi questo disco, liberatevi momentaneamente dalle preoccupazioni e convenzioni che vi attanagliano l'esistenza e lasciatevi andare, almeno per un momento: sarà la vostra indole a decidere se i Neurosis sono o no il gruppo che fa per voi.


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Raging Speedhorn

How the great have Fallen




Raging Speedhorn, un nome dalla facile aggettivazione: incazzati, grezzi, trascinanti. Senza nessuno speciale passo avanti dal precedente album, i ragazzi di Corby ci ripropongono il loro letale mix di metal, sludge e hardcore che, in mezzo ai duecento dischi “avanti” e “intelligenti” che escono nell'ambito estremo al giorno d’oggi, fa proprio piacere spararsi.
Perché? Perchè i Raging Speedhorn non si sono fortunatamente ancora scordati il significato della parola “groove”, e ripescandolo dai migliori anni 70 ce lo ripropongono in un ottica estrema, tirata, urlata, distorta al limite e annegata in un mare di feedback, accompagnato da caldi riffoni grassi e fottutamente southern.
Allora dov’è il problema di questo disco? Sostanzialmente nella poca varietà, perché dopo Dead Man Walking cominciamo a incespicare su episodi un po' meno riusciti, tra i quali si distinguono però l'immensa Slay the Coward e Don’t Let the Bastards Grind You Down, un'asfissiante cavalcata sludgecore. Un po’ troppi quindi i pezzi con poco tiro (quasi sempre i più lenti) per parlare di capolavoro, assolutamente devastanti invece quelli con un tocco hardcore/metal in più.
Un disco, riassumendo, gustoso, marcio e incazzato con sincerità, senza troppi fronzoli e con la giusta carica, che però presenta tre o quattro pezzi decisamente trascurabili. Alla fine comunque questi ragazzi si meritano il pieno supporto, perché la musica estrema con ancora qualcosa da dire passa anche tra le ringhianti chitarre di questo disco, e non è poco. For fanatics only.


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Vanessa VanBasten

La stanza di Swedenborg




Già all'uscita del primo EP molti amanti del genere gridarono al miracolo. Se qualcuno diffidava ancora nel vedere questa band come una delle migliori emergenti in campo sperimentale italiano, ascoltando La Stanza di Swedenborg vedrà sfumare ogni dubbio.
Il motivo è presto detto. Il disco è straordinariamente bello, ma non è tanto questo il punto: piuttosto si ha, durante l’ascolto, la forte sensazione dell’esistenza di uno stile Vanessa Van Basten a cui far riferimento, come si è soliti fare per compagini più blasonate. Il post rock a tinte heavy dell’EP è stato qui portato ancor più oltre, è stato intriso di un senso onirico e di una straordinaria solennità che lo rende appetibile anche ai non cultori del genere.
Post rock, una definizione che potrebbe appunto fuorviare, che senz’altro riguarda lo stile di una band in cui si fa evidente l’abilità di arricchire il tutto con una personalità dai tratti inconfondibili, inquietudini e oscurità, incontri cinematografici a sfondo orrorifico, dilatazioni ambientali di grande effetto ed atmosfera.
Spettrale la title-track con voce fuori campo, impatto drammatico donato dagli accordi del muro di chitarre distorte per poi placarsi e rendere l'atmosfera più intima con Giornada de Oro e passare all'inclinazione ambient di Il Faro, all'evocativa Floaters e agli algoritmi elettronici di Vanja. Una nuova realtà della musica italiana.


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Converge

Jane Doe




Jane Doe è, senza giri di parole, un disco immenso, denso di strati e visioni difficilmente spiegabili a parole. La reiterazione di alcuni concetti lo rende quasi un album ipnotico, il continuo inseguirsi degli strumenti ha, invece, tendenze claustrofobiche. Potete capire da soli che è un disco che cambia in base al vostro umore: può farvi impazzire (positivamente) come soffocarvi (negativamente) nel giro di pochi minuti, il trionfo dell'estremizzazione ed il parto di menti illuminate che si ritrovano a mescolare la materia hardcore con il noise, lo stoner (Hell To Pay), il doom (Phoenix In Flight), il grind e chissà cos'altro di nascosto fra le pieghe di un suono denso e paragonabile solo ad una colata lavica.
Un album spaventoso e unico nel suo genere e, per sua natura, irripetibile.
Proveniente da Salem, Massachusetts, i Converge si sono formati nel 1990. Il loro genere è una miscela di metal estremo e hardcore, e la loro musica ha contribuito alla nascita ed allo sviluppo del genere metalcore.


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Eyehategod

Take As Need For Pain




Gli Eyehategod, suonano dannatamente Lenti e Vintage. Come tradizione impone. Fondono Hardcore (perennemente e ostinatamente Old School) vocals sofferenti e schizofreniche e bordate inesorabilmente Lente e opprimenti. A volte il ritmo si alza, come a voler offrire all'ascoltatore una piccola dimostrazione di quanto si può ottenere suonando pesanti, ma non per questo senza dimenticare la forza deflagrante che può essere contenuta in un pur breve scossone sonico.
Sister Fucker Part 1 & 2 sono qui a dimostrarcerlo. Punk (prendete questa definizione con le molle) Cattivo e metalizzato, cascate di riff presi in prestito da Toni Iommi. Ma resi molto più duri, come la corrente Hardcore e Doom di ultima generazione impone. I brani si sviluppano per lo più con numerosi cambi di tempo, riff cadenzati da panzer si susseguono per far posto poi a digressioni di matrice acid-noise atte a raffigurare la rabbia e la frustrazione. Eppure questo è uno di quegli impianti sonori che da più tempo (leggasi primo album In The Name Of Suffering) propone questo suono denso e pastoso senza cali o cedimenti, senza cambi improvvisi di corrente musicale, giunti qui per testimoniare solo di essere una delle band di Sludge-Doom più credibili e indiscusse. Ascoltare per credere.


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A Silver Mt.Zion

Horses in the sky




Basterebbe questo nome per far aprire davanti a noi un universo a parte. La formazione canadese si è ritagliata con gli anni una fetta importantissima del panorama post-rock, grazie alla sua eccentricità e particolarità. Il gruppo si forma nel 1999 come un side project dei Godspeed You! Black Emperor, grazie al chitarrista Efrim Menuck, al bassista Thierry Amar e alla violinista Sophie Trudeau. Il disco in questione si presenta come un mezzo capolavoro nel genere, sostituendo alle intricate trame chitarristiche tipiche del post-rock i vocalizzi di Efrim.
L’incipit dell’opera è sconvolgente. God Bless Our Dead Marines si apre con alcuni vocalizzi particolarmente toccanti e istrionici, che vengono supportati da violini, tastiere e percussioni, accavallandosi e contorcendosi in una danza mistica e psichedelica. Poi le sfumature folk del disco prendono prepotentemente piede: Mountains Made Of Steam parte con un arpeggio molto suggestivo al quale si complementa l’immancabile voce di Efrim, accompagnata da cori.
Sussurrata, giunge alle nostre orecchie la title-track, interamente occupata da chitarra classica e voce, occupando sei minuti trasognati e toccanti, in pieno stile A Silver Mt.Zion.
Teddy Roosevelt’s Guns è sicuramente la traccia più atipica e sperimentale del disco. La parte vocale può apparire scontata, infatti ripete la frase “Oh Canada, oh Canada, I've never been your son” per quasi tutta la durata del pezzo, ma la vera innovazione è negli strumenti, che creano un atmosfera surreale e psichedelica.
Ring Them Bells (Freedom Has Come and Gone) chiude il disco in maniera esemplare, ritornando ai canoni (se così si possono chiamare) del post-rock, aggiungendoci una maestosità e un intensità difficilmente reperibili oggigiorno. Gli strumenti danno il meglio di se, regalandoci tredici minuti sentiti e capaci di toccare le corde dell’anima.


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Botch

We are the Romans




Sono gli USA la nuova Roma indicata dai Botch, ed è una Roma che cade, e con disastrosa inevitabilità cede al peso degli anni, delle piccole rivoluzioni quotidiane e della perenne innovazione di una civiltà caotica e frattale come quella umana.
E quindi è mastodontico, roboante eppure anche lui in un certo senso caotico e frattale, lucido e schematico, il sound dei Botch: un sound che si inquadra in un metalcore evoluto, ormai libero dei pregiudizi che lo hanno sempre impantanato, già pronto ad evolversi in quello che oggi viene spesso chiamato mathcore.
Riff contorti (e assoli impossibili si direbbero suonati da 4 mani), batteria che scandisce controtempi su poliritmi, influssi jazzy e dei King Crimson; eppure lo schema delle cose fluisce così bene, proprio come se fosse un brano di puro hardcore, semplice e lineare, energico. Pestano duro, ma sanno quand'è il momento di stare un po' calmi e far riprendere il fiato, eppure è solo una presa per il culo: uno schema ciclico, frattale intrappola l'ascoltatore in momenti catartici, furiosi, pura annichilazione della ragione, quadro di profonda anarchia che ritrae il crollo immane dell'Impero.
E, nonostante tutto, lo scheletro, la colonna portante di quest'opera sonora è permeata di lucidità. Di una fondata, magari schizofrenica, malata, però pur sempre di lucidità si parla, di razionalità, di coerenza compositiva: già al primo ascolto, avevo quell'indefinibile sensazione da "questi hanno messo le note giuste al posto giusto". Assalto dopo assalto, catarsi dopo catarsi, rivoluzione dopo rivoluzione, una marcia tonante introduce l'ultimo pezzo, che forse lo si potrebbe criticare per eccesso di epicità (il coro a cappella che scandisce il titolo dell'album, ad esempio). Tuttavia l'immagine apocalittica, ridondante e disastrosa, è ritratta con straordinaria efficacia.
Chiude il disco una hidden track, sette minuti di elettronica. Sì, proprio di elettronica. Condita da distorsioni quanto vi pare, ma è pur sempre elettronica.. non esattamente il tipo di cosa che ci aspettiamo in conclusione di un album così. Eppure l'esperimento - e la sorpresa - funziona, si incastra nel contesto affollato del brano.
Da Rocklab


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Slint

Spiderland




Nel 1991, mentre Nevermind segnava una svolta commerciale nella storia del rock, la Touch & Go rilasciava un album che oggi in molti fanno coincidere con la nascita del post-rock. Gli Slint si formarono nel 1987 registrando nel 1989 il loro disco d’esordio Tweez, prodotto nientemeno che da Steve Albini e seguito da Spiderland due anni dopo. La band si sciolse l’anno successivo, ma i suoi componenti sono rimasti attivi nella scena indipendente in altri gruppi e progetti.
Il retro copertina reca l’insolito messaggio che il disco andrebbe ascoltato in vinile. Fin dall’inizio si capisce che il suggerimento non è poi così bizzarro: in Spiderland le 6 tracce si fondono tra loro per creare un’unica atmosfera, in un voluto oscillare tra attimi di quiete e rumori stridenti, con sfumature non sempre percepibili su cd. Riff acustici e un basso ipnotico creano basi ora delicate, ora incalzanti, i suoni diventano sempre più tesi e incombenti, esplodono dopo un lungo pathos e si spengono poco a poco, come in Don, Aman e Good Morning, Captain. La voce è per lo più un sussurro parlato, ma nei momenti di maggior tensione diventa un lamento straziante. Nosferatu Man è il brano più energico dell’album, perfettamente bilanciato dai ritmi pacati della strumentale For Dinner.
Che la definizione di “pietra miliare” spesso associata a quest’album sia esagerata o meno, Spiderland rimane un ottimo disco che ha spianato la strada al post-rock ed è in grado di soddisfare i gusti degli ascoltatori più esigenti.


[Modificato da Benny404 17/08/2007 01:09]
27/10/2007 17:02
 
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